pirex
2009-01-25 16:25:22 UTC
Le conclusioni dello studio aprono un dibattito ideologico
«L'addio al comunismo?
Costato un milione di morti»
La rivista Lancet: nell'Est la mortalità è aumentata del 13% per le
privatizzazioni
Quanti morti può fare una privatizzazione?
O meglio - se un conto si può fare - quante vite è costato il passaggio dal
comunismo al capitalismo?
E ancora: si può conteggiare l'effetto delle ricette economiche che quella
transizione l'hanno dettata negli eltsiniani (e clintoniani) anni Novanta?
Il conto è stato fatto. Pubblicato su una delle più prestigiose riviste di
medicina internazionali, l'inglese Lancet, 4 anni di lavoro, modelli
matematici complessi, basandosi sui dati del'Unicef dal 1989 al 2002.
La conclusione: le politiche della privatizzazione di massa nei Paesi
dell'ex Unione Sovietica e nell'Europa dell'Est hanno aumentato la mortalità
del 12,8%.
Ovvero, hanno causato la morte prematura di 1 milione di persone.
Non che, finora, qualche stima non fosse stata fatta. L'agenzia Onu per lo
sviluppo, l'Undp, nel '99 aveva contato in 10 milioni le persone scomparse
nel tellurico cambio di regime, e la stessa Unicef aveva parlato dei 3
milioni di vittime. Lo studio di Lancet (firmato da David Stuckler,
sociologo dell'Oxford University, da Lawrence King, della Cambridge
University e da Martin McKee, della London School of Hygiene and Tropical
Medicine) invece parte da una domanda diversa: si potevano evitare tante
vittime, e sono da addebitare a precise strategie economiche? La risposta è
sì. Ed è la «velocità » della privatizzazione che - secondo Lancet - spiega
il differente tasso di mortalità tra i diversi Paesi. Si moriva di più dove
veniva adottata la «shock therapy»: in Russia tra il '91 e il '94
l'aspettativa di vita si è accorciata di 5 anni. Nei Paesi più «lenti »,
invece, come Slovenia, Croazia, Polonia, si è allungata di quasi un anno.
Grazie, signor Jeffrey Sachs. Perché se gli operai inglesi negli anni '80,
come nel film di Ken Loach, «ringraziavano» la signora Thatcher, gli operai
delle fabbriche chiuse dell'Est devono (in parte) la loro sorte al geniale
economista americano, consigliere allora di molti governi dell'Est. E
infatti il signor Sachs ha risposto piccato, con una lettera al Financial
Times. Ma quel «milione di morti» ha ormai accesso il dibattito ai due lati
dell'Oceano, sulle pagine del New York Times e nei blog economici. «S'è
scatenata - risponde da Oxford David Stuckler - una rissa ideologica, ma noi
non volevamo infilarci in un dibattito politico. Volevamo puntare
l'attenzione sui rischi sociali. E poi, il nostro non è un attacco alla
shock therapy, tant'è che analizziamo solo le privatizzazione, non le
liberalizzazioni o le politiche di stabilizzazione ».
E il signor Sachs? Contesta i numeri. Dice, all'Ft, che «dove sono stato
consigliere, come in Polonia, non c'è stato nessun incremento della
mortalità». E il caso russo, dove sono state «vendute 112mila imprese di
Stato» dal '91 al '94 contro le 640 della Bielorussia, e i tassi di
mortalità sono 4 volte maggiori? Colpa delle diete russe, dice Sachs, ma più
ancora del crollo dell'impero, «degli aiuti negati dagli occidentali a
Mosca», «tanto che nel '94 mi sono dimesso» da consigliere del Cremlino. Non
rinuncia all'occasione di seppellire Sachs il suo vecchio nemico, il Nobel
Joseph Stiglitz. «Lancet ha ragione, la Polonia è stata un caso di politiche
graduali. Quanto alla shock therapy, guardando indietro, è stata disastrosa.
Pura ideologia, che ha distorto delle buone analisi economiche».
C'è un altro dato che emerge nella ricerca. Il legame disoccupazione-
mortalità nell'ex Unione sovietica. «Il perché è evidente: erano le
fabbriche che spesso garantivano screening medici», dice Stuckler. Con la
loro chiusura nell'ex Urss è crollato anche il sistema sociale. Numeri
impressionanti di morti per alcol, di suicidi. «Mentre dove c'era una forte
rete sociale - come nella Repubblica ceca in cui il 48% delle persone faceva
parte o di un sindacato o va in Chiesa - l'impatto è stato quasi nullo».
Il sociologo Grigory Meseznikov, uno dei più apprezzati politologi
dell'Europa dell'Est, risponde al telefono al Corriere che «sì, sui ceti
inferiori l'impatto è stato forte. Ma poi, accanto ai danni immediati,
bisogna valutare i benefici e l'impatto positivo a lungo termine». A
Lubiana, il sociologo Vlado Miheljak, invece, ricorda che «tra i motivi del
successo sloveno, a parte la maggiore integrazione con l'Ovest, c'è stata
soprattutto la lentezza. Allora tutto il mondo ci criticava perché non
privatizzavano come i cechi, come gli ungheresi. Invece probabilmente, è
stata la nostra salvezza».
Mara Gergolet
23 gennaio 2009
http://www.corriere.it/esteri/09_gennaio_23/addio_comunismo_milione_morti_0dce5a8c-e91a-11dd-8250-00144f02aabc.shtml
«L'addio al comunismo?
Costato un milione di morti»
La rivista Lancet: nell'Est la mortalità è aumentata del 13% per le
privatizzazioni
Quanti morti può fare una privatizzazione?
O meglio - se un conto si può fare - quante vite è costato il passaggio dal
comunismo al capitalismo?
E ancora: si può conteggiare l'effetto delle ricette economiche che quella
transizione l'hanno dettata negli eltsiniani (e clintoniani) anni Novanta?
Il conto è stato fatto. Pubblicato su una delle più prestigiose riviste di
medicina internazionali, l'inglese Lancet, 4 anni di lavoro, modelli
matematici complessi, basandosi sui dati del'Unicef dal 1989 al 2002.
La conclusione: le politiche della privatizzazione di massa nei Paesi
dell'ex Unione Sovietica e nell'Europa dell'Est hanno aumentato la mortalità
del 12,8%.
Ovvero, hanno causato la morte prematura di 1 milione di persone.
Non che, finora, qualche stima non fosse stata fatta. L'agenzia Onu per lo
sviluppo, l'Undp, nel '99 aveva contato in 10 milioni le persone scomparse
nel tellurico cambio di regime, e la stessa Unicef aveva parlato dei 3
milioni di vittime. Lo studio di Lancet (firmato da David Stuckler,
sociologo dell'Oxford University, da Lawrence King, della Cambridge
University e da Martin McKee, della London School of Hygiene and Tropical
Medicine) invece parte da una domanda diversa: si potevano evitare tante
vittime, e sono da addebitare a precise strategie economiche? La risposta è
sì. Ed è la «velocità » della privatizzazione che - secondo Lancet - spiega
il differente tasso di mortalità tra i diversi Paesi. Si moriva di più dove
veniva adottata la «shock therapy»: in Russia tra il '91 e il '94
l'aspettativa di vita si è accorciata di 5 anni. Nei Paesi più «lenti »,
invece, come Slovenia, Croazia, Polonia, si è allungata di quasi un anno.
Grazie, signor Jeffrey Sachs. Perché se gli operai inglesi negli anni '80,
come nel film di Ken Loach, «ringraziavano» la signora Thatcher, gli operai
delle fabbriche chiuse dell'Est devono (in parte) la loro sorte al geniale
economista americano, consigliere allora di molti governi dell'Est. E
infatti il signor Sachs ha risposto piccato, con una lettera al Financial
Times. Ma quel «milione di morti» ha ormai accesso il dibattito ai due lati
dell'Oceano, sulle pagine del New York Times e nei blog economici. «S'è
scatenata - risponde da Oxford David Stuckler - una rissa ideologica, ma noi
non volevamo infilarci in un dibattito politico. Volevamo puntare
l'attenzione sui rischi sociali. E poi, il nostro non è un attacco alla
shock therapy, tant'è che analizziamo solo le privatizzazione, non le
liberalizzazioni o le politiche di stabilizzazione ».
E il signor Sachs? Contesta i numeri. Dice, all'Ft, che «dove sono stato
consigliere, come in Polonia, non c'è stato nessun incremento della
mortalità». E il caso russo, dove sono state «vendute 112mila imprese di
Stato» dal '91 al '94 contro le 640 della Bielorussia, e i tassi di
mortalità sono 4 volte maggiori? Colpa delle diete russe, dice Sachs, ma più
ancora del crollo dell'impero, «degli aiuti negati dagli occidentali a
Mosca», «tanto che nel '94 mi sono dimesso» da consigliere del Cremlino. Non
rinuncia all'occasione di seppellire Sachs il suo vecchio nemico, il Nobel
Joseph Stiglitz. «Lancet ha ragione, la Polonia è stata un caso di politiche
graduali. Quanto alla shock therapy, guardando indietro, è stata disastrosa.
Pura ideologia, che ha distorto delle buone analisi economiche».
C'è un altro dato che emerge nella ricerca. Il legame disoccupazione-
mortalità nell'ex Unione sovietica. «Il perché è evidente: erano le
fabbriche che spesso garantivano screening medici», dice Stuckler. Con la
loro chiusura nell'ex Urss è crollato anche il sistema sociale. Numeri
impressionanti di morti per alcol, di suicidi. «Mentre dove c'era una forte
rete sociale - come nella Repubblica ceca in cui il 48% delle persone faceva
parte o di un sindacato o va in Chiesa - l'impatto è stato quasi nullo».
Il sociologo Grigory Meseznikov, uno dei più apprezzati politologi
dell'Europa dell'Est, risponde al telefono al Corriere che «sì, sui ceti
inferiori l'impatto è stato forte. Ma poi, accanto ai danni immediati,
bisogna valutare i benefici e l'impatto positivo a lungo termine». A
Lubiana, il sociologo Vlado Miheljak, invece, ricorda che «tra i motivi del
successo sloveno, a parte la maggiore integrazione con l'Ovest, c'è stata
soprattutto la lentezza. Allora tutto il mondo ci criticava perché non
privatizzavano come i cechi, come gli ungheresi. Invece probabilmente, è
stata la nostra salvezza».
Mara Gergolet
23 gennaio 2009
http://www.corriere.it/esteri/09_gennaio_23/addio_comunismo_milione_morti_0dce5a8c-e91a-11dd-8250-00144f02aabc.shtml